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Tecnico cani d'assistenza disabili motori

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Ero all’ultimo anno dei miei studi in Psicologia quando incontrai il pensiero di Martin Buber per la prima volta: non può esservi una relazione autentica quando l’altro è un Esso e non un Tu. Da allora la relazione con l’altro, l’accettazione dell’alterità e la curiosità verso i diversi modi con cui le persone possono guardare al mondo, sono diventati il filo rosso che collega la maggior parte delle mie recenti esperienze personali e professionali. Condivido un punto di vista secondo il quale le scelte relazionali della persona e l’esperienza (o la mancata esperienza) di un riconoscimento intersoggettivo sono alla base del benessere o della sofferenza psicologica. Non potevo che portare avanti questo filo rosso, andando ad approfondire in che modo gli Interventi Assistiti con gli Animali (IAA) facilitino l’emergere di processi e di modalità relazionali funzionali al benessere della persona. In merito a questo, ciò che maggiormente si legge in letteratura e che gli IAA e la Pet Therapy favoriscono l’empatia… “Empatia” è diventata una parola assai inflazionata nel panorama psicologico e non, di cui talvolta si dà per scontato un significato che ovvio non è. Quello di “empatia” è un costrutto ben più complesso e largamente dibattuto. Ad oggi possiamo parlare di empatia cognitiva e di empatia emozionale (Roganti e Ricci Bitti, 2011). Se per “empatia emozionale” si intende quel “contagio emotivo”, che si manifesta nel momento in cui, osservando una persona, si tende a provare la sua stessa emozione (Goleman, 1996), “l’empatia cognitiva” è inerente ad un’elaborazione cognitiva che si verifica nel momento in cui un individuo prova ad immaginare le emozioni ed i sentimenti di un’altra persona deducendoli da elementi osservabili come il comportamento o il contesto, oppure attraverso un ragionamento di tipo logico-razionale. Quest’ultima presuppone la presenza di una Teoria della Mente, ovvero “la capacità di pensare che anche gli altri pensino, e soprattutto che possano pensare in modo diverso da noi”. Rispetto a questa distinzione, la 4 pensare in modo diverso da noi”, chiamata capacità di mentalizzare. Per quanto l’essere umano sia geneticamente predisposto allo sviluppo di tale capacità, la sua acquisizione talvolta non si realizza. Partendo dal pensiero dialogico-relazionale di Martin Buber, andremo ad elaborare i concetti psicologici di mentalizzazione e funzione riflessiva per poi esplorare in che modo la relazione mediata dal cane può favorire questo tipo di processi. LA RELAZIONE IO-ESSO E LA RELAZIONE IO-TU Secondo Martin Buber non può esservi una relazione autentica quando l’altro è un Esso e non un Tu. Il suo pensiero dialogico-relazionale, spunto anche di significative riflessioni in ambito educativo e pedagogico, sottolinea come un incontro autentico con l’altro si possa realizzare solo nel momento in cui riconosco l’altro come un Tu, ovvero come un soggetto con una propria individualità altra da me; questo tipo di incontro, che Buber definisce relazione trasformativa, è significativamente diverso dall’incontro con un altro che è per me un Esso, ovvero uno strumento, un oggetto di possesso o di azione. Buber sottolinea inoltre come, esclusivamente in un incontro Io-Tu la persona possa esprimere il suo essere. A partire dagli inizi del ‘900, molti altri contributi in ambito filosofico e psicologico hanno sottolineato l’importanza della dimensione intersoggettiva dell’uomo, di come lo sviluppo dell’individualità sia strettamente connesso alla dimensione relazionale e di come le esperienze relazionali precoci abbiano un ruolo centrale nello sviluppo del Sé. In particolare alcune prospettive psicologiche hanno approfondito in che modo la persona può, o non può, instaurare relazioni in cui l’altro è un Tu o non un Esso – come Buber direbbe – ovvero la possibilità di incontrarsi con un’altra persona e, pur considerandola diversa da sé, cercare di comprendere il suo punto di vista, i suoi pensieri o il suo stato d’animo e tenerlo presente nella relazione con lei. Non entrando nel merito di una disquisizione sull’eterogeneità delle varie teorie e pratiche in campo psicologico, possiamo genericamente affermare che vi sono prospettive teoriche che interpretano i 5 disturbi psicologici come esiti di modalità, scelte ed esperienze relazionali connotate dalla difficoltà di un riconoscimento intersoggettivo. Andremo adesso ad approfondire i concetti di teoria della mente, mentalizzazione e funzione riflessiva, i quali, a mio avviso, permettono di comprendere i processi implicati nella possibilità di realizzare un incontro Io-Tu, ovvero di “pensare che anche gli altri pensino, e soprattutto che possano pensare in modo diverso da noi” TEORIA DELLA MENTE, MENTALIZZAZIONE E FUNZIONE RIFLESSIVA Il concetto di mentalizzazione è piuttosto recente e sta avendo una grande diffusione nel campo delle scienze psicologiche. Mentalizzare significa, sinteticamente, “tenere a mente la mente propria e altrui”, ovvero tenere presenti, all’interno della relazione, i bisogni, i desideri, le credenze, le emozioni… nostre e del nostro interlocutore (Bateman e Fonagy 2004). Mentalizzare implica avere una consapevolezza implicita che il mondo “non sia necessariamente come noi percepiamo che sia”. Nonostante il termine mentalizzare possa essere confuso con “razionalizzare”, esso è alquanto differente. Infatti, nonostante sia necessaria una grande attività cognitiva, la mentalizzazione può essere considerata la rappresentazione “in parole” delle emozioni e dei sentimenti. La capacità di mentalizzare, cioè di avere una Teoria della Mente, comporta, in primis, la capacità di riconoscere che l’altro ha una mente differente dalla nostra (Fonagy e Target 1993-2000; Fonagy 2001; Fonagy et al. 2002) e di poter, quindi, inferire cosa avviene nella mente di qualcun altro attraverso la sua espressione facciale, il tono della voce e altre comunicazioni non verbali. In sostanza, si tratta della capacità di comprendere i propri comportamenti e quelli degli altri in termini di stati mentali quali credenze, sensazioni e motivazioni (Fonagy e Target 1997). La funzione riflessiva è quella capacità che favorisce lo sviluppo di una consapevolezza di Sè e la possibilità di tenere in considerazione che gli altri hanno una mente diversa dalla nostra e che le nostre rappresentazioni costituiscono un punto di vista, ma che altre persone possono averne altri, di tipo diverso (Procapio, 2012). La funzione riflessiva è stata descritta da Peter Fonagy e Mary Target (Fonagy et al., 1991; Fonagy, Target, 2001) come capacità di concepire il comportamento come prodotto di stati mentali che possono essere costituiti da desideri, emozioni, credenze, fantasie. Gli autori hanno poi inscritto questo concetto in quello di mentalizzazione (Fonagy et al., 2002; Fonagy, Target, 2003). 6 Con il termine mentalizzazione, Amadei (2006) indica l’insieme di processi mentali che permettono all’individuo di elaborare una riflessione sui significati del proprio comportamento e quello degli altri al fine di poter accedere alla comprensione di ciò che accade nelle relazioni interpersonali in relazione a pensieri, affetti, desideri, bisogni e aspettative. La capacità di mentalizzare viene acquisita nel corso dei primi anni di vita e risulta fondamentale la relazione con le principali figure di attaccamento. Infatti, solo se il bambino ha l’opportunità di fare un’esperienza precoce di una comprensione dei suoi stati emotivi da parte di un’altra mente potrà sviluppare un “interesse” e un’attitudine alla comprensione della mente dell’altro. Osservando e ricevendo dai caregivers le basi necessarie per poter associare lo stato mentale provato ai propri bisogni interni, il bambino acquisisce la capacità di mentalizzare, associando il comportamento della madre a possibili stati mentali e “immaginando” o inferendone la corrispondenza (Bowlby, 1969, 1989). Se la relazione con le figure di attaccamento è povera di sintonizzazione emotiva, se i genitori non mentalizzano i bisogni del figlio e non riescono perciò a fornire risposte adeguate, il bambino viene esposto ad un’esperienza prolungata di mancato riconoscimento. In particolare, quando nella rappresentazione del genitore il bambino non è concepito come individuo pensante – cioè dotato di intenzionalità complessa – egli non sperimenta il rispecchiamento necessario alla costruzione della funzione riflessiva, poiché l’immagine che i genitori gli rimandano con i loro comportamenti e le loro reazioni non descrive un soggetto che ha scopi e vissuti psichici individuali, in grado di differenziarsi dalla mente dell’altro e di generare una rappresentazione autonoma dell’esperienza. In questo caso l’immagine rimandata al bambino e quello di un soggetto – o meglio oggetto – in grado di adeguarsi o meno ai bisogni dei genitori o alle richieste dell’ambiente. Si creano perciò categorie rigide e non mentalizzate, per le quali il bambino è semplicemente adeguato, cattivo, stupido, disobbediente, bravo, etc… Questo tipo di esperienza è connotata da una mancanza di riconoscimento nella relazione, frequentemente fonte di sofferenza. Il bambino elabora a sua volta rappresentazioni rigide dell’esperienza in cui è assente l’attribuzione di stati mentali evoluti a sé e all’altro. Tali categorie rigide attraverso cui viene dato significato ai comportamenti dell’altro, precludono quella possibilità di rivalutare continuamente la propria esperienza (e quindi di cambiare alla luce dell’esperienza) resa possibile dalla mentalizzazione. 7 La difficoltà a mentalizzare ha implicazioni sia nella sfera relazionale della persona sia nella costruzione di un senso e di una consapevolezza di sé, e va a rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi o disagi psicologici. Si può quindi dedurre che la capacità di mentalizzare sia essenziale per una vita in sintonia con sé stessi e il mondo. Riprendendo il pensiero di Martin Buber, la mentalizzazione consente quella relazione Io-Tu connotata da un riconoscimento di me e dell’altro come soggetti differenziati e individualizzati. Questo riconoscimento reciproco intersoggettivo rende l’incontro relazionale un’occasione di cambiamento nella misura in cui, tenendo presente me e l’altro, possono modificarsi le attribuzioni di significato e le interpretazioni con cui si dà senso all’esperienza. Il riconoscimento reciproco nella relazione è, inoltre, l’esperienza attraverso la quale possiamo sentirci insieme all’altro, andando nella direzione contraria all’esperienza di solitudine. LO SVILUPPO DELLA MENTALIZZAZIONE Andiamo ad approfondire come la capacità di mentalizzare si sviluppa nel bambino: – Nella seconda parte del primo anno il bambino inizia a riconoscere delle relazioni causali tra le azioni, la persona che agisce e gli effetti sul mondo circostante. Ciò consente una prima differenziazione tra sé e oggetto, tra mezzi e fini e dunque il riconoscimento del sé come “agente teleologico”. Il bambino fa esperienza della sua capacità di agire e dell’esistenza di un mondo fuori da sé, anche se vi è ancora una visione del mondo come prolungamento della propria azione (egocentrismo infantile). – Successivamente, dal primo anno di vita, il bambino inizia a rappresentarsi mentalmente la propria capacità di agire: le azioni sono viste ora come causate da desideri e possono causare conseguenze non solo nei corpi ma anche nelle menti (propria o altrui). L’egocentrismo infantile non è più così pervasivo come nella fase precedente e si inizia a sviluppare la capacità di riflettere sui sentimenti e sui desideri degli altri come distinti dai propri. Tuttavia il bambino non è ancora capace di rappresentarsi gli stessi stati mentali come indipendenti dalla realtà fisica, e dunque la distinzione tra interno ed esterno non è ancora raggiunta. 8 In questa fase inizia a comparire il gioco di finzione, che permette al bambino di capire che un oggetto può rappresentarne un altro. – Durante il secondo anno di vita, dunque, emerge la comprensione del sé come “agente mentale intenzionale”: il bambino acquisisce gradualmente una “teoria della mente”, imparando che gli altri non sono semplicemente dei partner interattivi, ma hanno credenze, teorie e sentimenti. – Tra i tre e i quattro anni inizia a comparire la prima differenziazione tra interno ed esterno, tra realtà fisica e stati mentali: il bambino ora sa che le persone non sempre sentono ciò che dimostrano. Inoltre, emerge la capacità di distinguere le emozioni, la quale permette lo sviluppo dell’empatia ed di una maggiore interazione coi pari. – Intorno ai quattro-cinque anni, infine, la capacità di mentalizzare compie un salto qualitativo: gli stati mentali sono visti come indipendenti dalla realtà fisica: emerge la comprensione del sé come “agente rappresentazionale” (Fonagy, et al., 2002); il gioco diviene maggiormente elaborato e il gioco con i pari inizia ad essere preferito a quello con gli adulti. Si conclude il periodo in cui la mentalizzazione è esclusivamente acquisita attraverso la mediazione di una mente adulta e le altre relazioni sociali diventano occasione per comprendere sé stessi e gli altri in termini di stati mentali. – Durante il sesto anno di vita vediamo ulteriori progressi. Il bambino acquisisce la capacità di collocare le proprie esperienze all’interno un’organizzazione causale-temporale; ciò permette la costruzione di un sé esteso nel tempo e di accedere ad una rappresentazione del “sé autobiografico” (Fonagy, et al., 2002), coerente ed esteso temporalmente. – Lo sviluppo di questa competenza prosegue nell’adolescenza e nella giovinezza dove le esperienze relazionali si fanno più complesse. Questa capacità emergente di comprendere gli altri e sé stessi, in una prima fase è una attività “preriflessiva” (istintiva e spontanea); pian piano va a raffinarsi attraverso le capacità riordinatrici del linguaggio, per diventare quella che chiamiamo capacità narrativa, la quale presuppone una capacità di “meta-rappresentazione” narrativa. Questo processo a due livelli, quello di una modalità immediata e spontanea, pre-riflessiva (collegata all’attivazione di specifici circuiti neuronali) e di una più elaborata, riflessiva e ordinatrice attraverso le competenze linguistiche (narrativa e collegata alle esperienze nell’ambiente di vita) è sempre in atto in una interazione reciproca e costituisce uno dei tratti caratteristici dell’esperienza umana, che non può essere che soggettiva e personale. 9 Se l’essere umano è dotato geneticamente per sviluppare la capacità di comprendere gli stati mentali altrui, le rappresentazioni narrative, ovvero il modo in cui racconta e si racconta tale comprensione è soggettivo e strettamente connesso alle proprie esperienze relazionali. I NEURONI SPECCHIO: LA BASE PSICOBIOLOGICA DELLA TEORIA DELLA MENTE Negli anni ’90 un gruppo di ricercatori italiani dell’Università di Parma (Rizzolatti, Gallese, ecc.) scoprì, quasi per caso, che alcuni neuroni della corteccia di una scimmia venivano attivati sia quando l’animale compiva un’azione (es. portare alla bocca del cibo) sia quando vedeva compiere la stessa azione da un altro essere vivente. La presenza di questi neuroni è stata poi accertata anche nell’uomo. Perché si possano attivare i neuroni specchio è necessario che ci sia una immedesimazione nell’altro ed il “gradiente di attivazione” aumenta quanto più l’azione è riconoscibile in quanto specie-specifica, familiare e ancora di più se già conosciuta in quanto provata personalmente, visceralmente (Rizzolatti e Vozza, 2007). Ad esempio, quando si assiste ad una scena in cui l’altro prova emozioni, la vista di quell’emozione attiva la stessa via neuronale che verrebbe attivata se la persona stessa provasse quell’emozione. Oltre a questo meccanismo che scatta quasi automaticamente nell’immediatezza, con una modalità di “impersonare nel proprio corpo”, è stato osservato che i circuiti dei neuroni specchio si attivano anche quando l’azione viene ascoltata attraverso una descrizione o un racconto. Questo vuol dire che l’azione deve essere in qualche modo immaginata e ri-costruita nella mente della persona: e perché questo sia possibile deve esserci una struttura linguistica, discorsiva, che sia in grado di “mettere in sequenza” seppure in modo provvisorio e rudimentale, le informazioni raccolte per dare loro un senso: la percezione dell’altro assume una rappresentazione narrativa. Il sistema dei neuroni specchio dunque ci permette, in maniera automatica e pre-riflessiva, di “metterci nei panni dell’altro”, simulandone l’esperienza provata e ripetendola dentro di noi. Per questo i neuroni specchio sono stati chiamati i “neuroni dell’empatia”. Tuttavia, il modo in cui colleghiamo tutti i dati raccolti nell’interazione con l’altro, “la struttura narrativa” che diamo loro, ovvero il significato con cui interpretiamo tali informazioni non può essere che strettamente personale e connesso al bagaglio di esperienze della persona nel suo ambiente. Questo sottolinea come, per quanto i neuroni specchio ci permettano una sintonizzazione emotiva con l’altro e la possibilità comprendere le sue intenzioni, la struttura narrativa, ovvero il significato che attribuiamo a tale comprensione non può essere che strettamente personale e diverso da persona a persona. 10 LA DIFFICOLTÀ A MENTALIZZARE Negli ultimi decenni numerosi studi sono stadi condotti circa la relazione tra mentalizzazione e psicopatologia. Ricerche empiriche condotte negli ultimi trent’anni hanno portato ad ipotizzare che nei Disturbi dello Spettro Autistico, nel Disturbo Antisociale di Personalità, nella Schizofrenia e nel Disturbo Borderline questa capacità sia significativamente compromessa e che, di conseguenza, le persone affette da queste patologie evidenziano macroscopiche difficoltà nelle abilità sociali e relazionali. Oltre a queste patologie, in cui la capacità di mentalizzare appare significativamente compromessa, vi sono casi in cui la comprensione degli stati mentali altrui assume caratteristiche che evidenziano uno sviluppo peculiare della capacità di mentalizzare. Come abbiamo precedentemente argomentato, se la capacità di mentalizzare appartiene all’essere umano come capacità automatica e pre-riflessiva, la “rappresentazione narrativa”, ovvero il significato attraverso cui narriamo tale comprensione dell’altro non può essere che strettamente personale e connesso al bagaglio di significati individuali di cui la persona dispone, che a sua volta è strettamente in relazione alle sue esperienze nell’ambiente. È proprio in questa componente soggettiva di attribuzione di significati che hanno luogo modalità relazionali origine di sofferenza per la persona. Come Fonagy ha illustrato, vi sono casi in cui le persone utilizzano categorie rigide e non mentalizzate per dare significato ai “movimenti” dell’altro (ad esempio l’altro è buono, cattivo, disobbediente, egoista etc…). Seppure tali attribuzioni permettano alla persona una spiegazione del comportamento altrui, si tratta di una spiegazione rigida, statica e non processuale degli stati mentali di sé e dell’altro. Il movimento relazionale che questo genere di spiegazioni permette è limitato, così come è limitata la possibilità che tali categorie rigide siano modificate da esperienze future; tali categorie rigide attraverso cui viene dato significato ai comportamenti propri e altrui, precludono quella possibilità di rivedere le proprie interpretazioni alla luce delle nuove esperienze relazionali. Riprendendo la terminologia di Buber, si tratta di relazioni in cui l’altro è un Esso, in grado di rispondere o meno ai miei bisogni o alle mie aspettative. Se questo tipo di attitudine si osserva frequentemente nelle persone che palesano una sofferenza psicologica – di origine relazionale – essa può anche rappresentare un significativo fattore di rischio nello sviluppo di psicopatologie 11 INTERVENTI ASSISTITI CON GLI ANIMALI E MENTALIZZAZIONE Durante una delle giornate di tirocinio in una RSA, mi è capitato di assistere ad un episodio che molto mi ha fatto riflettere su questa tematica di cui finora ho trattato teoricamente. Valentina e Whisky, un cucciolo di sette mesi di Jack Russell, stavano incontrando un gruppo di 12 anziani, piuttosto eterogeneo a livello di funzionamento cognitivo. Valentina propone a Marco (utilizzerò un nome di fantasia), un signore con alto funzionamento cognitivo seduto in carrozzina, di mettere Whisky sulle sue gambe in modo da poterlo accarezzare. Dopo pochi secondi di carezze Marco dice: “Io lo farei scendere, non mi sembra stia molto comodo qui!”. Ecco, in questa frase credo ci sia il succo del chiedersi dell’altro, di quella che fino ad ora abbiamo chiamato capacità di mentalizzare. Marco ha colto dei comportamenti, dei movimenti, dei segnali da parte di Whisky e ha tentato di inferire il suo stato d’animo, il suo bisogno (“non mi sembra sia molto comodo qui!”). Se Marco non avesse avuto questa spiccata capacità di mentalizzare, avrebbe potuto dire che Whisky era scorbutico, scortese, cattivo perché non si voleva fare accarezzare, interpretando quegli stessi segnali alla luce dei propri bisogni e delle proprie aspettative. Che tipo di scelte relazionali gli avrebbero permesso questo genere di spiegazioni? Forse lo avrebbe costretto sulle sue gambe o forse lo avrebbe fatto scendere comunque ma, ai miei occhi, Marco avrebbe avuto un’esperienza assai diversa di quell’incontro. Se in questo caso Marco ha espresso questa capacità con “spontaneità e naturalezza”, potremmo invece pensare a interventi che vadano a sollevare proprio questo tipo di processi relazionali e di interrogativi sull’altro, al fine di favorire un’attitudine a un certo modo di incontrare l’altro. LA RELAZIONE UOMO-CANE: UN’OCCASIONE DI INCONTRO CON L’ALTERITÀ Andiamo adesso ad approfondire quali aspetti della relazione uomo-cane ci permettono di ipotizzare che essa possa essere un “luogo” in cui sviluppare l’attitudine a porci interrogativi alternativi sull’altro e in che modo gli IAA possano favorire la capacità di mentalizzare. 12 • Il cane come catalizzatore di relazione e di processi emotivo-affettivi: Già lo psichiatra statunitense Boris Levinson, nel 1953, aveva notato come alcuni dei propri pazienti – bambini con significative difficoltà di relazione e di comunicazione interpersonale – stabilissero con sorprendente facilità legami affettivi con il proprio cane. Lo psichiatra iniziò quindi le prime ricerche per verificare l’efficacia terapeutica degli animali da compagnia sul recupero di persone con gravi disagi psichici. Levinson giunse alla conclusione che la presenza di un animale d’affezione favoriva un certo rilassamento, una disponibilità al dialogo e una maggiore collaborazione da parte dei pazienti. L’animale aveva la funzione di “sciogliere il ghiaccio”, aiutando il bambino ad abbassare le proprie barriere emotive e fornendo, quindi, un’interessante spunto di comunicazione tra paziente e terapista. Fu proprio la psichiatra a coniare la definizione di Pet Therapy, cioè terapia per mezzo dell’animale, nel suo libro “Il cane come coterapeuta” pubblicato nel 1961. Secondo Levinson la chiave dell’efficacia terapeutica del partner animale sarebbe rappresentata dal “conforto” e dalla “simpatia” (ovvero dallo stabilirsi di un rapporto empatico) incondizionati che esso fornisce. Sullo stabilirsi di un rapporto empatico tra il cane e l’uomo molto è stato detto in questi decenni e vi è tutt’ora ancora un ampio dibattito scientifico sulle capacità empatiche (abilità di percepire e sentire direttamente ed in modo esperienziale le emozioni di un’altra persona così come lei le sente, indipendentemente dal condividere la sua visione delle cose) o simpatiche (abilità di percepire la situazione in maniera simile alla persona coinvolta, provando anche il desiderio di alleviare i sentimenti negativi che l’altro sta provando) del cane. Tuttavia, supportati anche dalle più recenti scoperte psicobiologiche che hanno individuato la presenza di neuroni specchio anche nel cane, possiamo dire che questo animale possiede quella capacità, alla base dell’empatia, di ripetere mentalmente gli aspetti emozionali, percettivi e motori della persona che osserva. Al di là di questo interessante dibattito che si interroga sulla differenza che tra empatia e “contagio emotivo” e sulla presenza di una qualche forma di “teoria della mente” nel cane, sembra ormai appurato (da una ricerca del 2014 portata a termine dal MtaElte Comparative Ethology Research Group in Ungheria, pubblicata sul “Current Biology”) che il suo cervello sia sensibile come quello di un qualunque essere umano ai 13 segnali delle emozioni e degli stimoli esterni. Ecco spiegato perché i cani riescono a comprendere gli stati d’animo dell’uomo, reagendo alla sofferenza umana cercando di fornire un sollievo. La relazione uomo-cane favorisce l’empatia proprio nella misura in cui gli aspetti emotivi in gioco sono amplificati da questa risonanza data dalla co-senzienza. • L’altro non mi giudica: La relazione con il cane è connotata da accettazione incondizionata, assenza di giudizio e pregiudizio. O meglio, sono assenti quelle dimensioni di giudizio che spesso rendono maggiormente difficoltose le relazioni intraspecifiche. A un cane poco interessa se siamo ben vestiti o meno, se siamo o non siamo acculturati, se siamo ricchi o poveri, etc. L’assenza della dimensione del giudizio, indubbiamente, facilità il coinvolgimento nella relazione ma anche la possibilità di mettere in gioco aspetti di sé senza sentire la minaccia di poter non essere accettati dall’altro. • L’altro è “evidentemente” diverso da me: Uno dei motivi per cui la relazione con l’animale può essere il luogo in cui si vedono favoriti processi di mentalizzazione, è il fatto che l’altro è ontologicamente e macroscopicamente diverso da me. L’interazione uomo-cane è un’esperienza in vivo di un incontro con un altro diverso da me; all’interno di questo tipo di relazione la persona può sviluppare un’attitudine a porsi degli interrogativi sull’altro e sul suo “punto di vista” che potrà poi, auspicabilmente, sperimentare anche nelle relazioni con i conspecifici. Roberto Marchesini parla di “referenza” per spiegare il processo di conoscenza e di cambiamento che si verifica nell’incontro con l’eterospecifico: «La referenza è il “contributo evolutivo” prodotto dalla relazione quando una data circostanza attiva una specifica “dimensione relazionale”. Tale contributo è innescato dalla diversità della natura dell’eterospecifico rispetto alla nostra, cioè del suo essere altro da noi (alterità ontologica). Quando questa differenza si manifesta (epifania) si produce un “effetto soglia”: l’uomo si affaccia nel territorio di un’altra specie proiettandosi in una realtà che è altro da sé e, in quel preciso momento, fra i due referenti avviene uno scambio, un’interazione che li porta a evolversi e 14 Riassumendo, la referenza è riconducibile ad un “contributo di cambiamento” che la relazione mette a disposizione dei dialoganti in misura differente, secondo la capacità che ognuno ha di assimilarlo.» Essere in relazione con un cane è di per sé un invito a cambiare punto di vista e spostarsi dalla propria prospettiva rappresenta un’esperienza di cambiamento. Tuttavia non è scontato che tutte le persone colgano “spontaneamente” questo invito. Nonostante questa evidente e ontologica diversità, non è comunque scongiurato il rischio che essa non sia riconosciuta e che l’uomo, così come non di rado fa con i suoi simili, proietti sul cane i propri bisogni, desideri, aspettative. Interessanti in merito a questo le riflessioni di Roberto Marchesini rispetto all’antropocentrismo, ovvero il conferire una lettura umana al mondo esterno, comprese le alterità animali. Gli IAA possono avere l’obiettivo di favorire questa attitudine di riconoscimento dell’alterità inter e intraspecifica. • L’altro mi guarda da un altro punto di vista: Un ulteriore aspetto della relazione uomo-animale, utile a favorire processi relazionali che tengano in considerazione la prospettiva altrui, è che il cane stesso ci guarda da un altro punto di vista. Il cane prende in considerazione aspetti di noi diversi dai nostri conspecifici, aspetti per i quali raramente ci sentiamo visti e considerati. Se siamo disponibili a riconoscere questa diversa prospettiva con cui siamo visti, diventa inevitabile trovarsi a guardare l’altro da un altro punto di vista e chiedersi che cosa è significativo per lui. • La relazione uomo-animale come luogo di “sperimentazione”: Favorire processi di mentalizzazione all’interno degli IAA costituisce un’opportunità di sperimentazione di modalità relazionali alternative limitando quelle implicazioni che, invece, vi sarebbero nella relazione intraspecifica. Mettersi in una prospettiva alternativa rispetto all’altro, provare ad ipotizzare i suoi processi mentali, le sue intenzioni, i suoi stati d’animo e poi metterli in gioco nella relazione comporta, per molte persone, un rischio talvolta difficilmente superabile. Quella con il cane è una relazione altra e proprio per questo motivo gli eventuali “fallimenti relazionali” nell’incontro sarebbero maggiormente circoscrivibili. Se “sbagliassi” a comprendere un amico, un compagno, o comunque una persona significativa, potrei temere di ferirla oppure di non essere accettato, di essere rifiutato, mal giudicato e potrei generalizzare questo fallimento a molte altre relazioni interpersonali. 15 Quella con il cane può rappresentare una relazione in cui la persona si concede maggiormente di sbagliare e di fare esperienza dai propri errori, proprio perché la minaccia è minore e la generalizzazione del fallimento ad altre relazioni non è così immediata. Tuttavia, una volta che la persona ha sperimentato nella relazione con il cane esperienze connotate da mentalizzazione, è auspicabile che tale generalizzazione avvenga o venga favorita, al fine di promuovere questo cambiamento in maniera più ampia anche nelle relazioni interpersonali. «Avevo 9 anni quando mio padre, amante dei cani fin da sempre, mi portò alle Cascine di Firenze all’Esposizione Internazionale Canina. Tra i tanti cani che vedevo per la prima volta, tornai a casa rapita dagli occhietti neri di quei bassotti a pelo duro che mai avevo incontrato. Iniziai, da lì, ad assillare i miei genitori affinché un cucciolo arrivasse nella nostra famiglia. Dopo molte esitazioni, i miei decisero di accontentarmi. Io, da bambina che già trovava molto senso nel prendersi cura degli altri, da mesi fantasticavo su come avrei accudito questo cagnolino nei suoi bisogni. Creavo posti in casa dove potesse stare, preparai un lettino che usavo per giocare con le bambole vicino al mio e persino una copertina con il suo nome. Ad agosto del 1993 Herby arrivò nella nostra famiglia; oggi posso dire che, per quanto mi volessi prender cura di lui, non avevo saputo ben anticipare quali fossero i suoi bisogni. La copertina che avevo preparato finì in coriandoli dopo pochi giorni, preferiva dormire sul tappeto piuttosto che su quel lettino e, avendo totalmente ignorato le sue attitudini predatorie, come poteva scappava per ore dietro ai gatti… e tante altre mie aspettative non si “avverarono”. Con Herby, per la prima volta, ho vissuto un fallimento relazionale e mi son trovata a chiedermi se davvero fossi così capace di prendermi cura degli altri. Cosa era successo? Oggi, ma non allora, potrei dirmi che nell’immaginarmi come prendermi cura di Herby, avevo considerato i miei bisogni e non i suoi, avevo immaginato un modo di prendersi cura che aveva a che fare con la mia idea di aiuto ma non con ciò che Herby potesse sentire utile per sé. Posso dire di aver visto Herby come un Esso e non come un Tu; un Esso nella misura in cui immaginavo di assecondare, attraverso di lui, il mio bisogno di sentirmi di aiuto, capace di prendersi cura. Chissà quante altre volte, prima di Herby, avrò offerto un aiuto a qualcuno nello stesso modo, ma mai nessuno come lui è stato capace di “dirmelo”. Oggi posso dire che esperienza mi ha permesso di rivedere molti aspetti del mio modo di stare in relazione agli altri». 16 FAVORIRE PROCESSI DI MENTALLIZZAIONE NEGLI IAA Gli IAA comprendono una vasta gamma di progetti orientati al miglioramento della salute e del benessere delle persone con l’ausilio di animali domestici. Alla luce di un sempre maggiore interesse verso trattamenti volti a garantire il recupero del benessere globale dell’individuo malato o in difficoltà, il Ministero della Salute, nel giugno del 2009, ha istituito il “Centro di Referenza Nazionale per gli interventi assistiti con gli animali e Pet therapy ” e ha iniziato un intenso lavoro conclusosi con l’approvazione il 25 marzo 2015 dell’Accordo Stato, Regioni e Province autonome recante “Linee guida nazionali per gli interventi assistiti con gli animali (IAA)”, al fine di promuovere la ricerca, di standardizzare i protocolli operativi e potenziare le collaborazioni fra medicina umana e veterinaria. Ciò rappresenta, da un punto di vista normativo, il concretizzarsi del riconoscimento degli IAA nell’ambito della Promozione della Salute, che vede la Salute come uno stato di benessere bio-psico-sociale e non semplice assenza di malattia (OMS, 1947). L’obiettivo di favorire processi di mentalizzazione attraverso gli IAA può collocarsi a più livelli della Promozione della Salute: dalla prevenzione primaria, alla prevenzione secondaria fino agli interventi terapeutici e riabilitativi. • Favorire la capacità di mentalizzazione a livello di prevenzione primaria: La prevenzione primaria ha il suo campo d’azione sul soggetto sano; si propone di mantenere le condizioni di benessere e di evitare la comparsa di malattie. In particolare è un insieme di attività, azioni ed interventi che, attraverso il potenziamento dei fattori utili alla salute e l’allontanamento dei fattori causali delle malattie, tendono al conseguimento di uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale dei singoli e della collettività o quanto meno ad evitare l’insorgenza di condizioni morbose. A questo livello, la capacità di mentalizzare potrebbe essere favorita attraverso le Attività Assistite con gli Animali (AAA) e rivolgersi in particolare a bambini e adolescenti, nei quali l’acquisizione di tale capacità è in evoluzione. Interventi che facilitino il consolidamento di questa competenza è significativo in questa fase di vita, in quanto essa va a costituire un fattore di protezione nello sviluppo di future condizioni di malessere. Il contesto scolastico o altri contesti ludici-ricreativi frequentati da bambini e adolescenti possono essere il luogo ideale per realizzare questo tipo di interventi. Potrebbero rivelarsi significativi, a questo livello, anche interventi nel contesto dei gruppi e delle organizzazioni, al fine di favorire un clima di accettazione reciproca, di conoscenza 17 dell’altro e di condivisione, che scongiura il rischio che il gruppo possa incorrere in situazioni conflittuali. Gli interventi potrebbero riguardare l’ambito del lavoro, delle organizzazioni e delle aziende, quello sportivo (squadre) ma anche contesti e/o istituzioni in cui le persone vivono insieme (istituti per anziani, comunità per minori, per esempio). Come descritto nelle “Linee guida nazionali per gli interventi assistiti con gli animali (IAA)”, le AAA sono “interventi con finalità di tipo ludico-ricreativo e di socializzazione attraverso il quale si promuove il miglioramento della qualità della vita e la corretta interazione uomoanimale. Nelle AAA la relazione con l’animale costituisce fonte di conoscenza, di stimoli sensoriali ed emozionali; tali attività sono rivolte al singolo individuo o ad un gruppo di individui e promuovono nella comunità il valore dell’interazione uomo-animale al fine del reciproco benessere”. • Favorire la capacità di mentalizzazione a livello di prevenzione secondaria: La prevenzione secondaria interviene su soggetti già in stato di malessere o malattia, anche se in uno stadio iniziale. Consente l’identificazione di una malattia o di una condizione di rischio a cui segue un intervento atto a interromperne o rallentarne il decorso. A questo livello, Interventi di Educazione Assistita con gli Animali (EAA) andrebbero a favorire la capacità di mentalizzazione in soggetti che già manifestano malesseri connessi alla carenza di questa capacità (bambini, adolescenti, adulti ma anche gruppi). Tali interventi potrebbero realizzarsi in contesti di gruppo (classi scolastiche, team e gruppi di lavoro, squadre sportive) in cui si sono già manifestati conflitti o fenomeni di esclusione, di bullismo, di mobbing, etc. Un ulteriore campo di applicazione di questo tipo di interventi, potrebbe essere quello di persone (bambini, adolescenti, adulti) che hanno manifestato iniziali malesseri o disagi (tali per cui non si ritengono ancora necessari interventi terapeutici di altra natura) che hanno a che fare con la sfera relazionale e sociale della persona. In questo caso gli interventi possono essere individuali o realizzati in piccoli gruppi e hanno come obiettivo quello di colmare questa carenza nelle abilità sociali attraverso l’esperienza relazionale stessa. Le “Linee guida nazionali per gli interventi assistiti con gli animali (IAA)” descrivono, infatti, l’EAA come “Intervento di tipo educativo che ha il fine di promuovere, attivare e sostenere le risorse e le potenzialità di crescita e progettualità individuale, di relazione ed inserimento sociale delle persone in difficoltà. L’intervento può essere anche di gruppo e promuove il benessere delle persone nei propri ambienti di vita, particolarmente all’interno delle 18 istituzioni in cui l’individuo deve mettere in campo capacità di adattamento. L’EAA contribuisce a migliorare la qualità di vita della persona e a rinforzare l’autostima del soggetto coinvolto. Attraverso la mediazione degli animali domestici vengono attuati anche percorsi di rieducazione comportamentale. L’EAA trova quindi applicazione in diverse situazioni quali, ad esempio: […] difficoltà dell’ambito relazionale nell’infanzia e nell’adolescenza, disagio emozionale e psicoaffettivo, difficoltà comportamentali e di adattamento socio-ambientale […]”. • Favorire la capacità di mentalizzazione a livello terapeutico: In questo caso gli interventi sono quelli che le “Linee guida nazionali per gli interventi assistiti con gli animali (IAA)” definiscono come Terapia assistita con gli animali (TAA), ovvero un “intervento a valenza terapeutica finalizzato alla cura di disturbi della sfera fisica, neuro e psicomotoria, cognitiva, emotiva e relazionale, rivolto a soggetti con patologie fisiche, psichiche, sensoriali o plurime, di qualunque origine. L’intervento è personalizzato sul paziente e richiede apposita prescrizione medica”. In questo caso la TAA volta a favorire la capacità di mentalizzazione andrebbe a rivolgersi a persone (bambini, adolescenti o adulti) che hanno un conclamato quadro psicopatologico, con implicazioni nella sfera relazionale della persona. L’intervento andrebbe a rappresentare una co-terapia in aggiunta a un trattamento psicologico, psicoterapico e/o farmacologico. Inoltre, tale TAA potrebbe rivelarsi utile in specifiche fasi della psicoterapia: in una fase iniziale se la persona mostra una ridotta disponibilità a coinvolgersi nella terapia usuale; oppure, quando lo psicoterapeuta ritiene possa essere utile una sperimentazione nell’esperienza relazionale delle elaborazioni avvenute nella stanza della terapia ma teme che tale sperimentazione nelle relazioni interpersonali possa esporre la persona e rischi eccessivi; ma anche in fasi di impasse della psicoterapia. IL RUOLO DELL’OPERATORE Come può l’operatore di IAA favorire la capacità di mentalizzare? Sia nelle AAA che nelle EAA, il ruolo dell’operatore e delle altre figure coinvolte nel progetto è quello di elicitare negli utenti una curiosità nel conoscere l’altro, ovvero il cane, nei suoi bisogni, nei suoi modi di muoversi, nei suoi stati d’animo, etc. L’obiettivo è quello di favorire un’attitudine a 19 interessarsi all’altro come soggetto diverso da sé, a porsi certi interrogativi sull’altro attraverso la relazione con il cane. Al fine di perseguire questo obiettivo l’operatore dovrà elicitare lui stesso questo tipo di interrogativi nel qui et ora della relazione, ponendo agli utenti domande come “Secondo te come mai Pippo sta facendo questa cosa?”, “Secondo te come sta Pippo in questo momento?”, “Se allora Pippo si sente così, cosa potresti fare?”, “Secondo te a Pippo piace più questa cosa o quest’altra?”. Anche lasciare che l’utente sperimenti dei piccoli fallimenti relazionali con il cane, per poi cercare di favorirne una comprensione, può rappresentare una valida strategia alternativa. Il linguaggio utilizzato e il grado di complessità delle domande dovrà variare a seconda dell’età e della fase di sviluppo della capacità di mentalizzazione. Nel caso delle TAA, invece, il ruolo dell’operatore è maggiormente circoscritto al favorire il realizzarsi dell’incontro con il cane. In questo caso sarà lo psicoterapeuta, lo psichiatra o il neuropsichiatra colui che cercherà di favorire elaborazioni circa la relazione persona-cane, alla luce della sua comprensione del paziente e degli obiettivi terapeutici che intende perseguire. CONCLUSIONI Attraverso questo elaborato siamo andati ad esplorare in che modo gli IAA possano favorire un certo tipo di attitudine all’incontro con l’altro, connotato dalla curiosità verso ciò che è diverso da noi e dalla propensione a conoscere, comprendere e riconoscere l’altro nelle sue peculiarità. Questo riconoscimento di sé e dell’altro, rende l’incontro relazionale un’esperienza di cambiamento. Partendo dal pensiero dialogico-relazionale di Martin Buber, siamo andati ad esplorare quali processi psicologici ci permettono di porci tali interrogativi sull’altro, per poi andare ad approfondire le implicazioni della mancanza di tale abilità sociale. Sulla base di questi elementi teorici, siamo andati a trattare delle modalità e degli ambiti di intervento in cui gli IAA possono favorire l’emergere o il consolidarsi della capacità di mentalizzare, la quale rappresenta un significativo fattore di protezione nello sviluppo di malesseri personale e di quadri psicopatologici. 20 BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA Andics, A., Gácsi, M., Faragó, T., Kis, A., Miklósi, Á. (2014). Voice-sensitive regions in the dog and human brain are revealed by comparative fMRI. Current Biology, 24: 574-578. Bateman, A.W., Fonagy, P. (2004). Il trattamento basato sulla mentalizzazione: psicoterapia con il paziente borderline. Tr. it. Raffello Cortina, Milano 2006. Bekoff, M. (2014). La vita emozionale degli animali. Tr. it. Haqihana, 2014 Fonagy, P. & Target, M. (2001). Attaccamento e funzione riflessiva. Milano: Cortina. Goleman, D. (1996). Intelligenza Emotiva. Milano: Rizzoli. Marchesini, R. (2015). Pet therapy. Manuale pratico. Milano: De Vecchi. Midgley, N., Vrouva, I., Marchetti, A. (2014). La mentalizzazione nel ciclo di vita. Interventi con bambini, genitori e insegnanti. Milano: Cortina. Rizzolati, G. & Vozza, L. (2007). Nella mente degli altri. Neuroni specchio e comportamento sociale. Bologna: Zanichelli.

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